NASCONDINO (racconto)
L'ingegnere edile Davide Dondoni progettava e dirigeva costruzioni
di fabbricati destinati ad ospitare officine, supermercati
e vendite all'ingrosso di materiali vari. Costruzioni che
richiedevano molta funzionalità e poca fantasia. Aveva
progettato anche abitazioni, condomini per lo più,
ma erano risultati anonimi, impersonali. Non peggiori di quelli
che si vedono oggi nelle periferie delle città, ma
neppure migliori. Così aveva deciso di specializzarsi
nella costruzione di complessi in zone artigianali. Lavorava
e guadagnava, tanto da poter condurre lui e la sua famiglia,
una vita da agiata borghesia di provincia, confortata dai
figli all'università, (il maschio naturalmente iscritto
ad ingegneria e la figlia a lettere antiche, rispettando la
tradizione secondo la quale nelle famiglie di un certo livello,
devono convivere le due culture, quella umanistica e quella
scientifica, la prima appannaggio della femmina e la seconda
del maschio) un attico in città, la seconda casa al
mare nella località più rinomata della zona,
l'iscrizione al circolo del golf, un'automobile straniera
di prestigio e naturalmente lo studio professionale all'altezza.
Segni e simboli di una rassicurante condizione economica.
Quale cliente affiderebbe la costruzione della sua fabbrica
ad un ingegnere che si muovesse con un'utilitaria o lavorasse
in uno studio scalcinato senza segretaria e dipendenti? Cosa
penserebbe? Questo è un morto di fame. E perché
è un morto di fame? Perché non lavora. E perché
non lavora? Perché non è un bravo ingegnere.
E se non è bravo perché mi faccio costruire
la fabbrica da lui? Meglio andare da un altro.
Non nascondiamocelo, una persona di successo la immaginiamo
vestita con eleganza, cortese, di aspetto gradevole e professionale,
con uno sguardo diritto ed intelligente, seduta su di una
poltrona di pelle girevole, ad un'ampia e comoda scrivania,
in un ufficio elegante e raffinato, con quadri di pittori
di una qualche fama alle pareti. E se non proprio autentici,
almeno buone copie.
Un miope può avere uno sguardo intelligente? E se ha
un aspetto ordinario ed è vestito in modo dozzinale
può essere bravo nel suo lavoro? Comunque sia, apparire
come il cliente ti immagina è meglio. Occorre essere
commercianti di sé stessi. L'ingegnere Dondoni lo aveva
capito e lo aveva capito anche la moglie, che curava il suo
guardaroba in ogni dettaglio e di tanto in tanto visitava
l'ufficio cambiando la disposizione dell'arredamento, aggiungendo
o togliendo piante ed ispezionando, senza darlo a vedere,
la segretaria (giovane, ma scialba) e i due geometri (giovani
e simpatici). L'ingegnere Dondoni era uomo metodico ed abitudinario,
corredo comune a molte persone, ma più frequente ed
evidente negli ingegneri. Effetto del tipo di studi? E se
l'abitudine e la metodicità rassicurano e tranquillizzano
la vita familiare, come contropartita offrono prevedibilità
e monotonia.
Tutte le mattine si alzava esattamente alle sei e mezza, apriva
il barattolo del caffè (della stessa marca da sempre),
prendeva dal pensile la caffettiera, nel filtro ne depositava
due cucchiaini due, rasati col coltello che ne faceva ricadere
i colmi nel recipiente in vetro con tappo sigillante. Con
questa tecnica raggiungeva un triplice effetto: evitava che
il caffè fosse troppo amaro, ne mitigava gli effetti
nervini e anche se non osava confessarselo, risparmiava.
Nei quattro minuti e venticinque secondi necessari all'acqua
per bollire (aveva constatato una variazione di qualche secondo
in più o meno dovuto al variare della pressione), si
recava al bagno, inumidiva il viso con acqua calda, lo insaponava
con il pennello e si radeva iniziando dalla guancia destra
proseguendo con la sinistra, conservando per ultimi la gola
e il mento, le superfici più delicate. Consentiva loro
in questo modo, di rimanere più a lungo a contatto
con la schiuma. Quattro minuti e venticinque secondi era un
tempo sufficiente a radersi con solerzia ed evitare la fretta,
che male si accompagna a chi usa la lametta. Il rasoio e il
pennello (per la verità un poco spelacchiato), gli
stessi da vent'anni, venivano in seguito sciacquati con cura
ed asciugati assieme alla ciotola del sapone, quindi riposti
diligentemente nel ripiano di competenza in ordinata e non
casuale sequenza. Ritornava in cucina, si versava un po' di
caffè nella tazzina e finalmente seduto, lo sorseggiava
concedendosi tre minuti tre di pensieri nel silenzio mattutino.
Quei minuti erano minuti tutti suoi, minuti di un brevissimo
ritiro dal mondo. Pensava compiaciuto ad una frase spiritosa
del figlio, a quel sorriso speciale della figlia, alla rassicurante
presenza della moglie che ancora dormiva. Ed anche alla telefonata
dell'amante che avrebbe ricevuto fra poco. Ma soprattutto
al vantaggioso contratto che avrebbe firmato fra qualche giorno.
Pensieri corroboranti per l'avvio di una proficua giornata
di lavoro. Ritornato in bagno, si lavava i denti, un'occhiatina
allo specchio, una spazzolata ai capelli, un breve massaggio
al viso con quattro gocce di dopobarba, poi silenzioso entrava
in camera da letto e dal comò sceglieva i calzini,
dall'armadio la camicia azzurra e la cravatta. A quel punto
la moglie che pareva dormisse, interveniva e gli suggeriva
di cambiare la cravatta che portava già da tre giorni
e aggiungeva anche di mettere quella blu a pallini azzurri,
che ben si intonava al vestito grigio di tasmania e alla camicia.
Queste attenzioni che gli uomini scambiano, nel loro estremo
narcisismo, (è chiaro che mi ama, chi più di
me merita di essere amato?) per amore, in realtà è
solo attenzione al proprio senso estetico, perché si
sa che le mogli, in certi ambienti, vengono valutate anche
attraverso l'eleganza del coniuge. Terminata la vestizione,
un'ultima occhiata allo specchio, in fondo non sono male,
un bacio di estrema routine alla moglie (è qualcosa
in più di un semplice ciao, i rapporti non si sostengono
solo con i sentimenti, ma soprattutto con le buone maniere)
e via al lavoro con in corpo un sano ottimismo. Preferiva
le scale all'ascensore (per scendere), un po' di moto fa bene,
comprava il quotidiano, dieci minuti di automobile, parcheggiava
nello spazio riservato e apriva la porta dell'ufficio esattamente
alle sette e trenta. Un'ora prima dei suoi dipendenti, per
controllare gli impegni della giornata, programmare i lavori
e ricevere la telefonata dell'amante, poiché quello
era l'unico momento in cui potevano parlarsi in libertà.
Non ne era innamorato e questo mitigava i suoi vaghi sensi
di colpa. L'amante era un di più, qualcosa che insaporiva
la vita e diciamolo, uno status symbol del professionista
di un certo livello. La relazione inoltre era gestita in modo
assolutamente discreto, come si conviene a persone dabbene.
Anche l'amante era felicemente sposata con un medico chirurgo.
(Dagli orari di lavoro massacranti e spesso notturni). Con
lei erano scongiurate piazzate, richieste di denaro e pressioni
per costringerlo alla separazione. Insomma, la sua vita procedeva
attraverso gli strani meccanismi dell'esistenza, come il tempo
negli oleati ingranaggi di un orologio svizzero. Non era un
ingegnere per caso, il suo motto era: programmare, organizzare,
gestire. Se ci si attiene a queste regole basilari, gli imprevisti
della vita possono essere ridotti percentualmente ad una cifra
insignificante. Per l'ingegnere Dondoni, la felicità
era prevedere gli eventi e prevenire gli imprevisti, anche
se può apparire quest'ultima, una contraddizione nei
termini.
La professoressa Laura Borghesi in Dondoni, quella mattina
si era concessa uno sfizio e sorseggiava il caffè dalla
diafana tazzina di porcellana bianca, che il cugino Giulio,
un tipo molto raffinato (non aveva mai capito se fosse gay),
le aveva regalato per le nozze, venticinque anni fa. Quel
servizio lo usava solo per ospiti di riguardo: quelli in rapporti
d'affari col marito. Per le altre occasioni usava il servizio
che le aveva regalato la zia Anna, che poveretta, aveva il
gusto che aveva.
Si era alzata senza l'assillo della fretta, doveva infatti
essere a scuola solo per le ultime due ore della mattinata.
Faceva colazione con calma e lasciava diffondere i pensieri
mattutini come velami, ad attenuare i profili spigolosi della
realtà. Il primo pensiero, tenero, era per i figli
che coscienziosamente studiavano all'università. Sapeva
che fra non molto li avrebbe persi definitivamente, anche
se già da ora, quasi non li vedeva più. Ma così
è la vita. Al marito invece pensava con qualche insofferenza,
anche se doveva ammetterlo, le garantiva sicurezza economica,
prestigio sociale e la frequentazione delle persone che contano
in città. Poteva definirsi una madre ed una moglie
realizzata.
La scuola in questi ultimi anni aveva assunto maggiore importanza
nella sua vita. Di anno in anno, mentre sentiva scemare il
valore della sua figura di madre e di moglie, cresceva in
lei il bisogno della realizzazione professionale. Dopo avere
contribuito all'affermazione del marito e alla sana crescita
fisica e culturale dei figli, ora che quei compiti andavano
esaurendosi, più o meno consapevolmente, pensava a
sé, alla propria necessità di stima e di protagonismo
nell'ambiente di lavoro. A tal fine accumulava nuovi incarichi,
ampliava i suoi interessi, coordinava, partecipava, frequentava.
Dopo la realizzazione della moglie e della madre era legittimamente
intenta alla realizzazione della donna.
La concezione perbenista della vita, derivata dai valori che
la famiglia tradizionale aveva riservato alle femmine della
sua generazione, compresa la fedeltà al marito, aveva
trovato in lei, diversamente da altre, fertile terreno, radicandosi
in profondità. Simpatie per uomini nel corso del matrimonio
ne aveva provate, ma le aveva costrette a rimanere tali, bloccando
con lodevole? autocensura, ogni loro progressione verso situazioni
più coinvolgenti.
Da due anni però si era insinuato, come un tarlo che
corrompeva e comprometteva la solidità della sua vita
affettiva, un pensiero ricorrente e nonostante la volontà
di scacciarlo, veleggiava a piacimento nella sua mente, silenzioso
come una bianca barca a vela. Indugiava e fantasticava su
sensazioni e sentimenti che credeva perduti con la fine dell'adolescenza
e a volte ne era spaventata, perché ne intuiva la pericolosità.
Si sorprendeva a sognare un domani meno scontato, ma subito
dopo, con tono realistico si diceva: ho una splendida famiglia
non posso metterla in discussione per un sentimento adolescenziale,
la realtà è la realtà. In questo modo
inibiva le sue fantasie e per qualche ora, spesso per qualche
giorno, riusciva se non proprio ad eliminare quel pensiero,
ad attenuarne l'intensità.
Aveva appena bevuto il caffè e quel pensiero stava
insinuandosi. Per scacciarlo si alzò dal tavolo, riscaldò
il latte lo versò nella tazza, vi aggiunse del müsli,
dallo studio prese il libro di letteratura e facendo colazione,
ripassò le opere e la vita di Pirandello. Era in ritardo
col programma e doveva approfittare anche dell'ultimo giorno
di scuola per preparare la classe all'esame di stato.
Da adulta aveva pensato più agli altri che a lei stessa,
ed il tempo, il suo tempo, lo aveva trascorso affaccendata
ed aggrappata alla quotidianità come alla fune di sicurezza
di un ponte sospeso sul fiume dove scorrevano gli anni. I
suoi anni. Avere tempo per pensare a volte non è utile,
serve più a creare problemi che a risolverli e l'abitudine
a fantasticare, a sottrarsi all'ordinario, può divenire
una fuga ed un vizio. E lei che per temperamento era incline
all'azione, alla concretezza, ad essere attrice e non osservatrice
della sua vita, lei che ora concedeva tempo alla sua mente,
si sentiva come un treno di seconda classe fermo ad un binario
morto.
Non era tipo da lasciarsi abbattere e decise che non poteva
rimanere in balia di simili pensieri. Si recò in bagno,
fece la doccia ed ancora umida ed avvolta nell'accappatoio
si guardò allo specchio.
Esistono pochi pensieri così intensi e radicati che
non possano essere scalzati, quando appare la propria immagine
riflessa nello specchio. In questi casi, tutte le facoltà,
tutti i sensi, compreso il sesto, sono impegnati a valutare
e soppesare la propria immagine. Osservò il viso scrutando
gli occhi (qualche grinza), le borse, la fronte, le labbra
e le rughe d'espressione. (Qualche sorriso per valutare come
appaiono). A seguire un'espressione seria ma distesa, la più
comune. (Non male). Decise di usare la crema x piuttosto che
la y perché non solo nutriente, ma anche idratante
e antipraticamentetutto. Si allontanò di due passi
ed ecco comparire l'intera figura. Le occorse tempo, perché
numerose erano le zone da passare in rassegna dalle diverse
angolazioni: il seno, la vita, i fianchi, il sedere, le cosce.
Gli anni si sa, non risparmiano nessuno, ma non le si erano
accaniti contro. Tutto sommato si fece ancora una buona impressione.
Indossato un intimo nero, provò due tailleur a gonna
ed uno a pantalone. Scelse quest'ultimo e messi nella borsa
gli innumerevoli oggetti che si trovano in ogni borsa femminile,
uscì di casa di buon umore.
Quando l'ingegnere Davide Dondoni rientrò alle venti,
puntuale come un orologio svizzero, sul tavolo trovò
una cena fredda a base si pollo ed insalata e sulla sedia
la moglie.
Si salutarono guardandosi appena negli occhi, lui naturalmente
disse di essere stanchissimo, lei rispose "anch'io"
lui le chiese di aspettarlo perché voleva farsi velocemente
una doccia prima di cenare, lei disse "non preoccuparti,"
lui rispose "faccio in un minuto." Quella volta
l'ingegnere Davide Dondoni non fu preciso come suo solito,
perché di minuti ne impiegò quattro. Laura accese
la televisione e mentre con le dita della mano destra tamburellava
sul tavolo, manteneva lo sguardo ficcato nel televisore e
i pensieri chissà dove. Quando la raggiunse le diede
un bacio sulla guancia e cenarono guardando il telegiornale,
come quasi tutte le sere facevano e come quasi tutte le famiglie
italiane fanno.
Lei sparecchiò, poi sul divano della sala rimasero
l'uno accanto all'altra davanti al televisore come quasi tutte
le sere facevano e come quasi tutte le famiglie fanno. D'improvviso
Laura gli propose di giocare a nascondino. "Nascondino?
Ma ci si gioca a dieci anni, giocare a nascondino alla nostra
età, ma cos'è, una regressione infantile? "
" Forza giochiamo a nascondino ti prego. "
"È ridicolo, te lo immagini se ci vedesse qualcuno?
"
"Chi vuoi che ci veda, forza giochiamo. "
Le donne, pensò, erano davvero strane, non avrebbe
mai potuto capirle fino in fondo. Rassegnato acconsentì.
"Tu conti per primo fino a cento ed io mi nascondo."
"Fino a cento? Guarda che si arrivava solo fino a trenta."
"Bene noi cambiamo la regola e arriviamo fino a cento,
perché non siamo bambini e ci occorre più tempo
per nasconderci. " Convinto, si voltò verso il
muro e iniziò a contare. "Devi contare lentamente
ricordalo." "Sai che non baro. Dodici, tredici,
quattordici…cento. "
La cercò nelle camere, sotto i letti, nello studio,
nello sgabuzzino, nel terrazzo e in ogni angolo della casa,
negli armadi, perfino dentro il frigorifero, ma non la trovò.
Quattrocentoventi. La cercò nell'ascensore, per le
scale e nel palazzo. Millecentoquaranta. Stava preoccupandosi.
La cercò nel quartiere, diecimilatrecentouno.
Ritornò a casa stremato e pensò di avvertire
i carabinieri, ma cosa avrebbe potuto raccontare? Giocando
a nascondino ho perso la moglie? Magari nella pagina locale
del giornale sarebbe comparso il titolo: "noto ingegnere
smarrisce la moglie giocando a nascondino". Sarebbe stata
la sua fine. L'avrebbe trovata, ma da solo. Si aggrappò
alla sua razionalità. Primo, non era accaduto nulla
di irreparabile. Secondo, se fosse rimasta intrappolata nel
suo nascondiglio l'avrebbe trovata perché aveva cercato
ovunque e in ogni caso lei avrebbe urlato. Terzo, forse era
uno scherzo. Era chiaro, era uno scherzo, ne era convinto.
Poiché era tardi decise di andare a dormire. Undicimilaseicentodieci.
La breve notte trascorse, considerata la situazione, tranquilla,
se si eccettua il fatto che di tanto in tanto si svegliava
e scandiva ad alta voce numeri aumentati ogni volta di tremilaseicento.
Poi si riaddormentava. Quella mattina si svegliò prima
del solito, diciannovemilaseicentodieci. Erano le sei del
mattino e di lei nemmeno l'ombra. Non sapeva che fare, telefonare
alle sue amiche? A quell'ora? E cosa dire? Sarebbe stato ridicolo,
sai i pettegolezzi. Era intento ai suoi riti mattutini e alle
sette in punto gli uscì un grido: ventitremiladuecento
dieci. Era stato un grido incontrollato, involontario, gli
era uscito senza rendersene conto. Per un tipo come lui era
strano, molto strano. Si chiese se fosse il caso di andare
in ufficio, ma non poteva mancare, aveva un appuntamento troppo
importante. Prima di uscire la cercò di nuovo per tutto
l'appartamento, anche nella scarpiera, ma senza risultato.
Non trovò neppure una lettera, un biglietto che spiegasse
qualcosa, nulla. Arrivò in ufficio alle sette e trenta,
alle otto meno dieci gli telefonò l'amante. Si confidò,
le raccontò tutto. Lei si mise a ridere, a sghignazzare
e si sentiva che quasi piangeva dal gran ridere, non l'aveva
mai sentita ridere di gusto come ora. Mentre era ancora al
telefono esattamente alle otto gli uscì un grido incontrollato:
ventiseimilaottocentodieci. Lei rise ancora più forte
e rideva e rideva come presa dalle convulsioni. Le chiuse
il telefono in faccia. Alle nove si recò in bagno e
la segretaria giura di averlo sentito gridare: trentamilaquattrocentodieci.
Alle dieci si diresse di nuovo in bagno ma i geometri sentirono
solo il rumore dello sciacquone del water accompagnato da
qualche numero. Così ad ogni ora.
Negli anni seguenti, come un orologio svizzero, ad ogni ora
l'ingegnere declamava serie di numeri sempre più lunghi
e complessi.
Finalmente dopo quattro anni uno psichiatra ebbe un'idea geniale
e travestitosi da elettricista, dopo alcune misurazioni con
un voltmetro, gli comunicò che aveva le pile scariche
e non era il caso che continuasse nella declamazione di quella
serie interminabile di numeri. L'ingegnere si convinse e smise.
Nel frattempo la moglie, emigrata in Venezuela, si guadagnava
da vivere insegnando in una scuola italiana. Aveva cambiato
diversi compagni ed ora conviveva con un uomo di trentadue
anni che trafficava in diamanti.
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